Il bar e la pressione del pallone

Il bar e la pressione del pallone

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Ricordo la prima volta che mi sentii adulto: discutevo animatamente su un gol di Cuccureddu con un signore dietro di me. Avevo 7 anni. Lui circa 70.



Nel 1994 Umberto Eco intitolava La perversione calcistica un intervento in cui illustrava il rapporto tra gli italiani e il calcio paragonandolo a certe forme di piacere sessuale. Una persona normale, dice, è sano e bello che faccia all'amore. Poi ci sono casi in cui piace vedere altre persone fare all'amore, dal vivo oppure in video: anche questa, entro certi limiti, può diventare un'esperienza appagante. "Infine ci sono i repressi sessuali che si eccitano a sentire qualcuno che racconta che ha visto due che facevano all'amore": in tal caso si può parlare tranquillamente di perversione. Allo stesso modo, continua Eco, giocare a calcio è sano e bello. Guardare chi gioca meglio di te può essere uno spettacolo eccitante. "Passare la giornata a farsi venire l'infarto discutendo su quello che raccontano i giornali, e che magari non si è visto" ci può far parlare tranquillamente di perversione. Sono d'accordo.

Però, per definizione, la perversione è un gusto personale che devia da quanto accettato dalla cultura dominante. Ma se l'oggetto del piacere è il calcio, e la cultura dominante è quella italiana, non si può più parlare di deviazione, quindi nemmeno di perversione. Io parlerei piuttosto di "malattia".

In Italia, si sa, il calcio è più di un gioco. È più di uno sport: è una malattia che contagia tutti, anche senza contatto diretto, perché genetica. Una trasmissione ereditaria che determina in maniera più o meno irreparabile il fenotipo di ognuno di noi. Bianconero, giallorosso, rossonero, biancazzurro, blucerchiato, nerazzurro, viola, rossoblù, granata, rosanero... sono genotipi che, a contatto con certe condizioni ambientali della Penisola, possono condizionare il destino sociale di un individuo. Eventuali discriminazioni saranno favorite non dal colore della pelle, ma da quello della maglia della squadra del cuore (che d'altronde molti italiani considerano una seconda pelle) allargando la portata semantica della definizione "colori sociali". Si pensi a quale destino vada incontro uno che nasce Juventino a Firenze, o Milanista a Napoli. Tanto per capirci, è come se Gambadilegno, invece che Topolino, si ritrovasse ad affrontare i Supereroi della Marvel. O, nel peggiore dei casi, come se Puffetta finisse per qualche oscuro motivo in un Manga pornografico giapponese. Non avrebbero certo vita facile.

Il lunedì mattina sarebbe preclusa ogni manifestazione di gioia per la vittoria del giorno prima; mentre, in caso di sconfitta, si andrebbe incontro ad un vero e è proprio supplizio, senza nemmeno il conforto di avere due ladroni dalla propria parte. Insomma, una croce da portarsi a scuola come in ufficio, in fabbrica come al bar. Già, il bar. Perché se i giocatori si affrontano in campo, i tifosi si incontrano al bar.

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S'incontrano o si scontrano. Dipende. In Italia esistono 8.101 comuni, ma tutte e due insieme le squadre di serie A e B mediamente rappresentano soltanto 37 realtà cittadine (al netto dei 5 derby di Roma, Genova, Torino, Milano e Verona). Vivere in una di queste realtà è - calcisticamente parlando - garanzia di sicurezza sociale, equivale cioè a frequentare ambienti non ostili alla propria specie. Persino nelle città che ospitano due grandi squadre, i territori sono ben marcati e ognuno saprà quali posti evitare, dove poter esibire i propri colori e dove invece no. Ma chi - come me - ha la sorte di nascere geograficamente lontano dalle realtà del Grande Calcio, si trova a condividere il territorio con una fauna sportivamente policroma quanto fanatica. Per la varietà delle frequentazioni, neppure i bar rappresentano un covo sempre sicuro. Raramente le sedie si trasformano in oggetti contundenti, più spesso invece accade che un rigore, un fuorigioco, o una sostituzione diventino il perno intorno a cui gira un vortice di espressioni ben più colorite dell'insieme dei colori di cui ognuno vorrebbe difendere la causa, in una sorta di foro BARbaro (sono sempre più convinto dell'etimologia della parola).

Non so quanti lettori abbiano avuto la ‘fortuna' di trovarsi in un bar di provincia la domenica pomeriggio quando, tra le 18 e le 19, la Rai trasmette 90° minuto. La storica trasmissione propone interviste e sintesi dell'intero turno di campionato a pochi minuti dalla fine delle partite.

Mi ricordo di quando ero bambino. Il salone con la tv si riempiva di gente che si disponeva in piedi dietro a chi era già seduto. Questi a loro volta, abbandonate le carte da gioco, ruotavano con le sedie in direzione dello schermo come girasoli al sole. Un fenomeno naturale che si ripeteva una volta alla settimana (negli anni per la verità lo spettacolo calcistico ha aumentato la sua frequenza, e forse per questo diminuito il suo calore...). Ancora oggi i bambini si intrufolano tra le gambe degli astanti. Tollerati per la loro altezza, si dispongono in cerchio davanti a tutti, sotto il televisore, i musi all'insù e le tempie sudate per aver fino a quel momento cercato di emulare i campioni della loro squadra in rettangoli di gioco arrangiati pochi metri più fuori.
Un religioso silenzio (d'altronde in Italia si parla di ‘fede calcistica') pervade la stanza fino alle prime immagini, quando le ingiurie si scatenano contro arbitri, avversari e persino giocatori della propria squadra (l'errore dei nostri idoli ci aiuta ad eclissare le nostre colpe quotidiane), elevando le icone pagane del calcio giocato al livello dei Santi, i più gettonati durante il resto della giornata.

Tutti, senza distinzione di età, hanno riconosciuta la democratica dignità di dire la loro. Ricordo la prima volta che mi sentii adulto: discutevo animatamente su un gol di Cuccureddu con un signore dietro di me. Avevo 7 anni. Lui circa 70.

Tutto accade contemporaneamente: un commento tecnico, un'invettiva, un suggerimento tattico, una soluzione alternativa... Un baccano che è l'apoteosi del manuale del calcio.

L'importante non è prevalere sugli altri (ci sarà sempre un tifoso della stessa squadra che ci darà ragione), ma la sensazione di avere voce in capitolo nel consesso di esperti convenuto nel luogo in cui il calcio si gioca senza pallone.

Perché in Italia siamo 60.000.000 di allenatori e il bar è la nostra Coverciano.

Stefano István Naccarella

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